Apro gli occhi, sentendomi
chiamare per nome. “Dovete ancora operarmi?” esordisco d'impulso
e quasi con sarcasmo. Ma nello stesso istante in cui sento la
risposta “No, tutto finito”, avverto un dolore diverso da quello
che ricordavo e allora capisco che sono le ferite. Indago se
l'intervento è stato possibile senza “apertura dell'addome”. Sì,
tutto regolare. Sorrido. Mi sento liberata e capisco che in confronto
al dolore delle coliche che avevo, della loro sopportazione e
dell'ansia dei mesi di attesa, il dolore delle ferite post-operatorio
non è nulla. In meno di 48 ore sarò a casa. Chiedo subito di vedere
chi mi è stato accanto. Parlo, ma a fatica. Posso muovere gli arti,
la testa, ma non alzarmi. E' come se fossi tagliata in due, ma sono
tranquilla perché so che la sensazione durerà poco. Ascolto la
musica e dormo vegliando tutta la notte, continuamente interrotta dal
lavoro delle infermiere. Sento un paziente che brontola dall'altra
sala. Mi viene da ridere, ma non posso. Ho male all'addome.
E' l'unica notte che passo
su quel letto. L'indomani sono già in piedi. Mi muovo, anche se ben
lungi dal camminare. Incrocio una ragazza nell'altra stanza,
terrorizzata dall'intervento che deve subire. Cerco di darle conforto
morale. “Non sentirai nulla. Ti sveglierai e sarà tutto finito.
Non pensare ora a possibili complicazioni. Poiché non devi prendere
nessuna decisione non analizzare tutti gli scenari possibili. Devi
solo lasciarti andare, con fiducia. E considera che non c'è
cicatrice che non possa essere coperta in futuro da un bel tatuaggio.
Oh, scusa, non ti piacciono?” - sono sempre la solita fortunata ad
estrarre la frase meno opportuna. “Coraggio”. E poi torno a
riposarmi. Mi stanco facilmente. La sera torno a casa. Non avrei mai
trovato la forza di lasciare quel reparto se non mi avessero
incoraggiato a dimettermi e se la degenza in ospedale non mi
annoiasse così tanto.
Trascorro una settimana
facendo enormi progressi, alzando progressivamente “l'asticella
dell'autosufficienza e autonomia”. I media, le elezioni imminenti,
il lavoro non pagato, la schiavitù dell'immagine. Nulla mi concerne,
completamente assorta nei miei traguardi quotidiani. Il mondo là
fuori può pure distruggersi. Non mi importa. Forse sono un'altra
persona, vivo in una sorta di limbo. Dolorante, come un ferito dopo
una battaglia, ma serena, per la vittoria. Mi sento come una
lucertola dopo un'autotomia: ho perso la coda, ma proseguo incurante,
sapendo che pian piano la coda si riformerà.
Mi sento di nuovo
piena di forza e speranza, come quando sono tornata da Londra e speravo di
riuscire a fare qualcosa di costruttivo nella mia città di origine,
quando ambivo ad esser rivoluzionaria e non ribelle. Spero in un
cambiamento. Spero nel “movimento”. Movimento, accusato di non
avere un programma, di non aver competenze. Accusato da chi ha paura,
da chi non vuole guardare avanti, da chi non vuole superare il blocco
mentale di mangiare la pasta senza prima vedere la marca della
confezione, da chi si nasconde dietro l'immagine neutrale di
“un'Italia giusta” o da chi, convinto di seguire Blake ha votato
pensando "active evil is better than passive good".
Non so cosa
succederà. Non sono fanatica. Non ho miti. Diffido di ogni persona
troppo popolare. Ma spero che ci si renda conto che così non si può
più andare avanti e si pongano le basi per una società più umana,
solidale e un'economia più sostenibile.
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