Ogni volta che mi sveglio, provo la sensazione di essere appena nata. Ma
dura soltanto un istante. Un unico istante in cui non comprendo ciò che è
successo fino al giorno precedente. Cosa ho fatto? Cosa devo fare? Poi
realizzo. Se la giornata precedente sarebbe degna di essere rimossa, la
giornata odierna inizia amaramente, con l’unica consolazione che sia già trascorsa e
oggi si ricomincia. Il guaio è dover ricominciare da ieri, non da oggi.
Iniziare un’attività, nuova rispetto a ieri, festeggiare il successo o rimediare
il danno di ieri.
A volte mi chiedo quanto peso diano gli Altri ad ogni mio sbaglio. Se
ricordano ogni mia figuraccia, se ridono ancora di un mio comportamento
inadeguato per il quale adesso provo vergogna e che vorrei non aver mai tenuto.
Già, ma dietro ogni mio sbaglio e ogni mio comportamento inadeguato si nasconde un disagio. Un disagio di cui il giorno dopo mi vergogno, ma che nell’istante in cui lo provo mi avvolge, mi fa star male, mi trascina con sè. E mi attrae, perchè solo lasciandomene sedurre posso poi capirlo e attribuirgli un significato.
Ma perchè non vince subito il pensiero della vergogna del giorno dopo
piuttosto che il desiderio di fuga imminente dalla realtà e di abbandono al
disagio?
Ma perchè, in un ambiente in cui mi sento a disagio, non riesco a far
presenza, ma mi ostino a voler essere differenza?
Collaboro, come lavoratrice autonoma, con un medico privato che un giorno, mentre discutiamo del progetto di ricerca che ho avviato, si ricorda di una cena per l’anniversario della sua attività. Prende l’invito dalla scrivania e me lo porge. Lo accetto molto volentieri. Lavoro sempre da casa, conosco solo la sua segretaria e, di vista, poche persone dell’ufficio amministrativo. Pertanto vedo l’evento come un’occasione per potermi integrare meglio in un ambiente dove non ho una posizione ben definita.
Mi reco sul luogo del ritrovo. E’ un posto di lusso, più di un centinaio
sono gli invitati. L’aperitivo. Comincio a mangiare e bere, credendo che la
cena consista nel buffet. E invece mi sbaglio. La cena inizia alle dieci.
Dimenticavo, che qualcuno potesse essere indifferente alla crisi economica, al
di fuori dell’ufficio assunzioni o ricerca e sviluppo.
Ad un certo punto mi immagino Fantozzi, un misero ragioniere, al tavolo dei
dirigenti. “Lei conosce le regole, vero?”. Ed io, con la mia misera
collaborazione, al tavolo dei dirigenti temo di far la stessa figura
fantozziana. Eppure se sono lì, dovrei sentirmi all’altezza. Al contrario di
Fantozzi, ho il titolo di studio uguale o più elevato dei dirigenti ed anche il
medico che mi ha invitato lo riconosce e gliene sono grata. Apprezzo che lui
consideri che il cervello vale, anche se preferirei lo facesse garantendomi una
posizione più stabile e aiutandomi a cibarlo con alimenti che non posso trovare
in una cena di lusso.
Ma perchè, perchè non posso essere felice di essere stata invitata e
sedermi lì tranquilla? Tranquilla, in un ambiente formale? Perchè sto male al
pensiero che in piena crisi e scarsità di risorse ambientali qualcuno possa permettersi
cene aziendali luculliane?
Eppure se mi impegno sono in grado di sostenere conversazioni superficiali.
Basta sorridere, comprendere, essere gentile e stare zitta, custodendo
nell’intimità le mie idee, per poi sfogarle nell’alcova di casa.
Ma non riesco, quando sto male. Mi pesa troppo il mio malessere. Vorrei
parlare della mia sofferenza del giorno precedente quando ho visto una bambina
disabile in pena per la paura di un semplice intervento odontoiatrico. Ed i
suoi genitori soffrivano ancora di più. Soffrivano, da un lato per la società,
imbarazzata dalla disabilità della figlia, e transitivamente della loro, dall’altro
lato si sentivano imbarazzati dalla società stessa che li isolava. Avrei voluto
discutere a quel tavolo del mio malessere, della mia impotenza nei confronti
delle pene del mondo.
Discutere, liberandomi della nausea che provo per le ingiustizie,
liberandomi della mia vergogna di essere vestita in maniera poco consona ai loro
canoni. Liberarmi della mia vergogna di essere, del mio disagio, della mia
incapacità di comprendere l’ostentazione. Liberarmi dalla vergogna di essere
attratta da ciò che il tavolo forse definisce “feccia”. di essere contenta di aver visto
il giorno stesso una mostra di arte contemporanea, di esser sollevata per aver
visto il mio stesso disagio riprodotto in alcune opere.
Ad un certo punto realizzo che l’unico modo per liberarmi della mia
vergogna interiore è fuggire. Lascio la sala alla chetichella, anche se
successivamente subentra la vergogna per la mia inettitudine, per la mia
maleducazione, per aver violato il galateo sociale, per non essere stata in
grado di partecipare al convivio. Mando un messaggio per scusarmi: non sto bene
e sono uscita senza disturbare, per non rovinare la festa. Mi ha fatto piacere
il vostro invito.
In effetti non ho detto una bugia. Non sto bene. La mia cistifellea non mi consente di abbuffarmi. Ed allora perchè non ho rifiutato subito l’invito? Perchè non volevo tirarmi indietro. Perchè ero curiosa di partecipare e non volevo che la mia salute mi condizionasse. Devo operarmi. Da quando ho saputo dell’intervento, per quanto l’abbia accettato con stoicismo, ho cominciato a sentirmi in credito con la società. Ho cominciato a chiedere, anzichè dare. Ho ripreso ad esigere dagli altri, anzichè sforzarmi di comprendere le loro esigenze. Mi sono comportata in maniera sgarbata e aggressiva, rimproverando agli Altri ritardi e disattenzioni. Mi sono comportata male, ma in realtà reclamo solo un po’ di fiducia nei loro confronti.
E adesso reclamo anche un po’ di comprensione, un po’ di appoggio per il mio
comportamento. Per non essere stata in grado di mascherare la mia insofferenza.
Spero che ciò non mi escluda lentamente dall’ambiente, che al momento si rivela
l’unica possibilità di finanziamento. Ma so che ciò non accadrà. In fondo hanno
bisogno di me, del mio talento, anche se il mio ruolo all’interno dell’istituto
è marginale. E forse per questo non si ricorderanno nemmeno della mia comparsa
e scomparsa, anche se a me resta la vergogna e il rimprovero per il mio stupido
atteggiamento. Tutto per un semplice intervento.
Un semplice intervento, semplice per i medici, come per me lo sono le
statistiche base che turbano invece i medici. Per loro i miei calcoli sono
routine, per me invece lo sono i loro.
Un semplice intervento che razionalmente non mi spaventa, ma che mi
sconvolge interiormente per l’idea che persone, come quelle sedute al tavolo,
siano in grado di tagliare e asportare una parte del tuo corpo, anche se questa
parte è causa del tuo male. Una parte che mi toglieranno mentre io sarò
completamente incosciente e al mio risveglio troverò solo dei buchi.
Sicuramente è una bazzeccola in confronto ad altri interventi o altre
privazioni. Ma la sensazione è la medesima di andare in banca a prelevare soldi
dal conto corrente. Sia che prelevo 100 o 1000 euro, mi ritrovo sempre con
meno soldi.
Ho letto una citazione di recente da un libro di Luisa Pogliana "La diversità stabilisce un confine, la differenza continuamente lo attraversa".
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