“Chi è che sta
così male.” “Le do' un indizio” e mi avvicinai al banco
mostrando la tessera sanitaria. “Inizi subito stasera la terapia
con la prima iniezione.”
Quelle iniezioni mi
buttarono a terra, ma debellarono quella terribile infezione alle vie
urinarie.
Quando mi ripresi
un po', ecco che ritornarono la nausea e l'acidità, molto simili a
quelle che avevo avuto l'anno passato in seguito all'intervento di
colecistectomia. Mi alzavo al mattino e la giornata aveva l'amaro in
bocca. Andai dal medico. Feci i primi esami, ma nulla. Presi
antiacidi e antireflusso, ma nulla. Poi tornarono i dolori che provai
a calmare con gli antidolorifici solo dopo esser arrivata alla
disperazione. Mi si gonfiò il seno, ma dall'ecografia nessuna
neoplasia.
Ad un certo punto
decisi di lasciare perdere farmaci e visite (se avessi continuato, una
bella gastroscopia me l'avrebbero fatta solo per farmi star zitta).
Come dice anche Battiato, “non servono tranquillanti o terapie, ci vuole
un'altra vita”. Ed allora mi convinsi che la nausea fosse un effetto
psicosomatico del continuare a vivere in Italia. Decisi di non
provare a chiedere ed aspettare mesi per il rinnovo di una
collaborazione che mi scadeva. Un altro progetto, da me concepito e a
cui tenevo veramente, non venne finanziato. “E' ora di partire di
nuovo, one way.” Ma andare dove?
Sognavo di andar
lontano, forse per non esser poi tentata di ritornare, un posto fuori
dall'Europa. Un posto dove avrei avuto possibilità di esser
coinvolta in qualche progetto innovativo. Un posto però diverso
dagli Stati Uniti. Il Canada, pensai. Cominciai a veder le procedure
per entrare. Troppa burocrazia! Troppi documenti. Troppo difficile
stabilizzarsi in un paese che ti rispedisce a casa scaduto il
permesso di soggiorno per lavoro. Troppi soldi per farsi un viaggetto
di perlustrazione e troppo freddo : le previsioni nella norma davano
19 gradi sottozero. Avrei superato ogni troppo, ma non quello di
sentirmi troppo stronza per non poter facilmente tornare a far visita
alle mie sorelle in caso di necessità. Troppo lontano da loro. E
avevo anche troppa nausea per poter mandare documenti e aspettare una
firma per partire. Avevo già perso troppo tempo in attese e ora
volevo partire il prima possibile.
Volevo andare in un
paese dove non c'è burocrazia, diverso dagli UK per non cadere di
nuovo negli stessi errori e per vivere in un posto nuovo. L'idea di
dover imparare un'altra lingua mi intrigava, ma dovevo andare in un
paese dove ti accolgono anche se inizialmente parli solo inglese.
Dovevo anche andare in un paese dove avrei voluto stabilizzarmi.
Il Paese ideale
dove trasferirsi deve avvicinarsi all'ideale del Paese dove si
vorrebbe vivere. Infatti quando andai in UK non mi posi il problema
perché quando partii non ero nauseata e non cercavo un'isola felice,
ma soltanto raggiungevo il mio compagno e tutto il resto era da
scoprire. Ora invece era diverso. Ero stanca di far l'anima in pena e
poi sarebbe costato caro, soprattutto al mio compagno che avrebbe
perso un posto a tempo indeterminato, fare un'altra avventura senza
pensare al futuro. Probabilmente se fossi stata da sola sarei partita
subito senza pensarci troppo per fuggire dalla nausea, ma convenivo
che la nausea sarebbe prima o poi ricomparsa, una volta finita la
curiosità iniziale, se fossi andata nel posto sbagliato.
Il tempo e la distanza filtrano le
emozioni e gli stati d'animo, lasciandoti solo il ricordo
dell'esperienza vissuta e il senso di mancanza per ciò che hai
lasciato. Per esempio spesso vien voglia di ritrovarsi con gli
ex-compagni di scuola indipendentemente dal fatto che ci fosse stata
o no simpatia. Perché? Soltanto perché si sente la mancanza di una
parte di noi che in un certo senso abbiamo lasciato a loro. E così
quando ti trovi all'estero ti dimentichi della nausea per il tuo
Paese, del disagio che provavi e del disprezzo per alcuni
atteggiamenti dei suoi abitanti e ti affiora alla mente soltanto il
ricordo di tutta la vita che hai lasciato: la famiglia, gli amici, le
strade, i locali, le scuole, l'università. Allora decidi di
ritornare nel tuo Paese per riprenderti la tua vita e una volta
tornato ti ricordi della “scappatella” che hai vissuto nell'altro
Paese e ti dimentichi del senso di vuoto che avevi, ricordandoti solo
dell'avventura che ti ha cambiato perché si è presa una parte di
te.
Dopo tutte queste considerazioni e pensando
all'ideale di Paese dove avrei voluto vivere, decisi di partire per
la Danimarca. Infatti, informandomi sulla sua cultura e società, i
punti in comune con il mio ideale sono: forte fiducia e rispetto per
il sistema pubblico, le politiche “green” in particolare l'uso
diffuso della bicicletta come mezzo di trasporto, l'informalità
nell'ambiente di lavoro, ma anche nelle relazioni in genere, il non
essere maniaci del lavoro e il non stagnare in ufficio per far
credere di lavorare di più, l'apertura mentale …
Inoltre la Danimarca è stato il primo posto dove
hanno introdotto i diari dei pazienti come supporto di cura per i
malati in terapia intensiva (uno dei miei forti interessi di
ricerca).
Pertanto iniziai a contattare le persone che avevano
fatto questi studi per farmi conoscere e chiedere se c'era
possibilità di collaborazione. Non funzionò e allora iniziai a
vedere sui portali web annunci e bandi in centri di ricerca e
università. Dagli annunci in inglese sembravano esserci poche
offerte, ma risposi a tutte le poche interessanti. Mandai la mia
candidatura anche alle aziende farmaceutiche che cercavano
statistici (in realtà avrei preferito il settore no profit, ma avevo
troppa nausea dell'Italia per pormi troppe questioni morali).
Poi scoprii un mondo di annunci interessanti, ma
scritti in danese. Superai la barriera linguistica (mi bastò il
traduttore di google) e mandai la mia candidatura in inglese
(ammettendo però di non conoscere ancora il danese).
Dopo tante “application” mandate ricevetti due
inviti, da parte di centri di ricerca, per colloquio via skype e uno
per un colloquio telefonico. Ad un certo punto mi ritrovai davanti
alla webcam con persone sconosciute e l'intervista fu spontanea. Mi
fecero i complimenti (i danesi non sono cosìi “polite” come i british e quindi ne fui soddisfatta) e ci mancò
poco che non mi assunsero (penso perché alla fine scelsero un
candidato che a parità di competenze sapeva anche il danese).
Pensai che avrei avuto molte più possibilità e
credibilità se fossi andata direttamente lì a cercar lavoro e
intanto frequentare la scuola di danese gratuita per gli stranieri.
Di sicuro avrei trovato qualcosa e mi sarebbe anche piaciuto chiedere
ospitalità in cambio di lavoro (mentre cercavo il vero lavoro).
Visto che il mio compagno non voleva lasciare il suo posto senza
esser sicuro che almeno uno dei due ne avesse uno “serio”, ma
considerato che io non potevo più rimanere in questa situazione,
pensai di partire per qualche mese da sola (lui mi avrebbe raggiunto
dopo).
Ad un certo punto però ebbi dei capogiri, poi mi
tornarono i disturbi della minzione e una lieve infezione. Erano
situazioni piuttosto imbarazzanti ed il bagno mi sembrava sempre più
lontano della Danimarca. Era grottesco: all'inizio sognavo il Canada
ma alla fine non potevo far altro che restare in-continente.