Il camice.
Le calze. Il letto. La preparazione. I preliminari. E poi … NULLA.
“Siamo stanchi. Non possiamo soddisfarla. Il paziente precedente ci
ha tolto tutte le energie, tutte le voglie. D'altronde i pazienti non
sono macchine. Hanno i loro tempi. I loro bisogni. Non possiamo
sempre garantire prestazioni ad ore. Ci dispiace averla tenuta a
digiuno così tante ore e aver accresciuto in lei il desiderio senza
poterlo soddisfare. Ci rincresce.” La parola che ha fatto sboccare
al vaso. Vomito il vuoto, il bisogno la cui soddisfazione dipende
dagli altri. Il dolore più atroce di chi attende e non subisce
nulla. Il senso di abbandono, di rifiuto. Il bisogno umano che con la
crisi della produzione diventa irragionevole. Ammalarsi in questo
periodo richiede lottare affinché il tuo bisogno non divenga così
urgente da dover subordinare la tua esistenza alla disponibilità
delle risorse sul mercato. La stessa lotta di un disoccupato, per
sopravvivere.
NULLA. Falso
allarme. Non è ancora la data giusta. “Venga dopodomani.”
“Dopodomani non è più Carnevale. Niente scherzi allora!”
Il camice.
Le calze. Lo stesso letto. La preparazione. I preliminari, stavolta
senza iniezione pre-anestetica, ma con continue iniezioni di fiducia
somministrate a turno dai medici. “Stavolta vedrà. Non facciamo
cilecca. Rimarrà soddisfatta. Ci siamo. Arriviamo. La prendiamo.
Gliela togliamo … quella cistifellea calcolatrice che
le impedisce di vivere serenamente. Vedrà. Con quattro buchi
sull'addome dovremmo farcela. Ci siamo. Si prepari. Anche se è
indisposta, la operiamo lo stesso. Non ci poniamo questi problemi.
Siamo abituati al sangue. Lei deve solo aspettare la carrozza.”
Dio,
la smettono di eccitarmi, di sollecitarmi tenendomi sospesa,
impedendomi di rilassarmi con le mie droghe musicali e
di tranquillizzarmi con i miei auto-incoraggiamenti. “Ci siamo, ci
siamo....” Ma un momento. Il paziente che mi precede non esce. “Mi
sa che la rimandano di nuovo a casa illibata.” L'uccello
del malaugurio o il passero della verità? No, non potrei sopportare
un altro giorno in bianco. Non ce la faccio più. Non lascio questo
maledetto letto e questa stanza finché non placano il mio dolore e
il mio desiderio di liberarmene. Chiamino pure la polizia o il
reparto psichiatrico. Basta!! Eppure no. Non mi hanno ancora indotto
a varcare il confine tra pazzia e sanità mentale. Ho ancora il pieno
autocontrollo. Mi calmo. Devo aver fede. Devo essere rilassata per
l'intervento. Adesso verranno a prendermi. Ad un certo punto vedo la
carrozza arrivare.
E'
ora. La sedia mi
impressiona e poi vorrei entrare in sala marciando. Ma non esito. Mi
accomodo tranquillamente. Non ho paura di entrare nella sala verde.
Si apre la porta. In effetti non c'è motivo di essere spaventata
vedendo tutte queste facce accoglienti, sorridenti ed amichevoli. E
non solo, esperti nel loro mestiere. Mi stringono la mano. Eppure
l'idea è terribile. L'idea di affidarsi completamente a qualcuno, a
tal punto da perdere i sensi, la propria coscienza. Offrire a
qualcuno la possibilità di porre fine alla tua esistenza, in un
secondo, con il tuo consenso, nel tuo letargo. O risvegliarsi e non
ricordarsi nulla. Cosa è successo? Cosa mi han fatto? Cosa sono
questi buchi? E' solo l'idea. L'idea è più pericolosa
dell'intervento in sé. Nemmeno i preparativi giustificano il
pensiero. E' il pensiero che fa soffrire, che ci addolora. E se
trattasi di pensiero allora basta evadervi. Chiudere gli occhi. Non
guardare. Sento le gambe tremare. “Tranquilla, te lo faccio
passare.” Respiro ossigeno. Ecco ora inizia la partita. “Ora ti
addormenti”. Calma e gesso. Vi cedo la palla e ve la metto sul
tavolo. Giocateci, tiratela, centrate la buca e poi svegliatemi.
Svegliatemi solo quando sarà di nuovo il mio turno di giocare.