Stavolta fu un pezzo
di pelle ad essere asportato, un neo nel dito medio del piede
sinistro. L'intervento fu breve, in anestesia locale, ma per due
giorni ne portai a passeggio il dolore e l'inabilità a camminare.
Ero scettica, non
credevo che la biopsia potesse rivelarmi qualcosa di nuovo, di utile.
Quasi volevo evitare, volevo rifiutarmi, ma la mia mente razionale,
la mia curiosità e la mia deformazione professionale mi spinsero
all'intervento senza esitazione.
Dovevo classificare
questo “dato”, come feci tempo fa in uno studio statistico, dove
analizzai le biopsie. Tutti tumori, a vari diversi stadi. Tutti pezzi
di persone di cui non conoscevo nulla e che apparivano ai miei occhi
soltanto come variabili “categoriche”. Chissà quante lacrime
legate a quelle categorie, quanti progetti andati a monte e in fine
quanta sofferenza ….
La mia mente si era
preparata, come l'anno scorso, ad ogni eventualità, al punto da
essermi già orientata verso un nuovo percorso che nessuno avrebbe
voluto compiere, la cui destinazione rima con desolazione.
Ma anche questa volta
l'esito negativo della biopsia e le parole del dottore “adesso può
sorridere” mi lasciarono invece in uno stato di confusione e
smarrimento.
E' incredibile come
si possa provare delusione o persino infelicità per una bella
notizia, soltanto perché questa si scontra con le aspettative,
contro ciò a cui si era preparati.
Stavolta durò poco
questa sensazione di abbandono, di sconforto di fronte all'evidente
ignoranza clinica del sentimento umano, dello stato interiore, di
come ci si possa sentire con l'unica certezza della malattia di cui
non si soffre. E tutto il resto? Qual è la spiegazione?
Durò poco, perché
tornai subito al lavoro, con la certezza della mia mansione. Tornai
subito a frequentare le persone conosciute in questi mesi, con la
certezza della loro amicizia o della loro simpatia.
In fondo sono le
persone del luogo a farti sentire parte del luogo. L'anno scorso non
avevo ancora molti legami e non avevo nessun ruolo. Giravo con mia
figlia da un posto all'altro, con l'intento di esplorare la città,
ancora titubante di fronte al multilinguismo incalzante.
Ed il fatto che
nessuno riusciva a capire il mio malessere fisico e continuava a
dirmi che non avevo nulla, mi faceva sentire ancora più straniera,
più smarrita.
Mentre quest'anno
tale sensazione durò giusto il tempo della visita, per poi svanire
ed essere dimenticata.
“E' sicura che non
ha bisogno di parlare con qualcuno per accettare questi linfonodi?”
Sì, non ho più
bisogno di parlare di questa storia. Non solo accetto ciò che ho e
ciò che non ho, ma ne decanto persino la follia, l'ebbrezza. Non ho
bisogno di parlare, ma devo vivere, celebrando la mia esistenza ai
limiti della “linfomania.”