venerdì 29 luglio 2011

Idillio

Una mano impegnata a scrivere appunti, l’altra a stringere un’altra mano, quella della persona che ti sta accanto. Uno sguardo furtivo, un sorriso, un bisbiglio, mentre il professore e’ distratto a cancellare la lavagna.
Non avrei mai immaginato che dalla meta’ del secondo anno accademico le mie lezioni sarebbero state cosi’ piacevoli. E, dopo le lezioni, ovviamente il piacere aumentava.
Avevo incontrato la persona che cercavo da sempre, con la quale instaurare un rapporto esclusivo. Una persona intelligente con la quale potermi confrontare, con la quale condividere interessi e pensieri, di cui potermi fidare e con cui confidarmi, nelle cui braccia rifugiarmi, al sicuro, trovando la quiete. Al suo fianco anche le giornate uggiose diventavano radiose. Bastava uno sguardo e la tristezza scompariva.
Avevo sempre pensato e agito da sola. I miei obiettivi erano sempre stati individuali. Ma con lui altri obiettivi ben piu’ importanti si sarebbero potuti realizzare.
Prima di conoscerlo, pensavo di essere autosufficiente e di non aver bisogno di Amore. Vedevo il mio futuro in solitudine anche se, beninteso, non in isolamento. Non mi illudevo di poter incontrare una persona con la quale la convivenza giorno per giorno, minuto per minuto non fosse opprimente, ma armoniosa, sorprendente e non banale.
E invece mi sbagliavo. Se si trova la persona con cui si e’ in sintonia non ci si stanca mai di averla vicino, anzi, si richiede continuamente la sua presenza.
Se da una parte avrei voluto abbandonarmi a lui completamente, dimenticandomi di me stessa, dei miei obiettivi e forse persino dei miei impegni, dall’altra tendevo a difendere la mia posizione, la mia ideologia, la mia immagine da persona autonoma perche’ avevo paura di diventare piu’ vulnerabile, di perdere la mia indipendenza.
Ma con lui fu possibile raggiungere il perfetto bilanciamento. E la mia vita fu felice e cangiante.
Sono i sentimenti ad aggiungere valore alle esperienze. Se si vive soltanto per realizzare un obiettivo avulso dagli affetti, una volta che lo si realizza, ci si sente soddisfatti. Ma la soddisfazione si esaurisce presto, cosi’ come le sensazioni piacevoli e fugaci, e dopo ci si trova di fronte al vuoto che si cerca disperatamente di colmare con altri obiettivi o sensazioni.
Invece se un’emozione e’ legata al sentimento, non ci si sente vuoti una volta soddisfatti. Ci si sente in pace. Non si cerca piu’ nulla perche’ si possiede gia’ tutto. 

mercoledì 27 luglio 2011

La rivincita

Dopo la maturita’, mi chiesi cosa mi avesse motivato, nel corso del triennio delle superiori, a studiare cosi’ assiduamente ragioneria e materie giuridico-economiche. Solo allora, espletando le pratiche familiari, ne percepii l’utilita’ pratica.
Ma gli studi che dovevo portare a termine erano ben piu’ stimolanti.
Il primo anno accademico si concluse con profitto anche se la tristezza per il lutto familiare superava la felicita’ per l’esito degli esami.
Realizzai pero’ che, poiche’ credevo nelle mie capacita’ e nella mia determinazione, neanche le disgrazie avrebbero potuto impedirmi di conseguire il mio obiettivo: laurearmi il prima possibile con il massimo e la lode.
Studiare con l’onere dell’amministrazione familiare sarebbe stato solo piu’ faticoso, non chimerico. Avrei organizzato lo studio in funzione degli impegni familiari e, quando possibile, gli impegni familiari in funzione dello studio. In fondo, l’ambiente universitario lo permetteva, non richiedendo l’obbligo di frequenza alle lezioni.
Giocai la rivincita contro le avversita’ con fervore e convinzione. Il secondo anno accademico fu un trionfo. Un bersaglio dietro l’altro, tutti colpiti al centro e al primo colpo.
Se avessi avuto un altro carattere ed un altra personalita’ avrei potuto continuare cosi’ per tutto il corso di laurea, raggiungendo il massimo al primo colpo.
Ma la matematica richiede molta tranquillita’, riflessione, precisione, formalizzazione, sistematicita’, chiarezza e la mia impulsivita’ e impazienza si rivelarono spesso un ostacolo. Pertanto talvolta, per raggiungere il massimo risultato, dovetti rifiutare l’esito dell’esame e ripeterlo una seconda volta, dopo sufficiente “training autogeno”.
A volte succedeva che, essendo di malumore, non riuscivo a risolvere tutti gli esercizi. Se avessi dato libero sfogo al mio “temperamento artistico” avrei appallottolato e gettato in terra il foglio dell’esame. Invece avevo imparato, dall’esperienza, a contenermi, anche se non potevo evitare di sfogare la mia rabbia in casa, seppur pacatamente, dal momento che dovevo mantenere l’autocontrollo del capofamiglia.
Se l’ebbrezza e’ insita nella propria natura, non si puo’ condurre una vita completamente sobria.
La sorte pero’ mi richiedeva sempre piu’ rassegnazione e sacrificio. Nel corso dell’ultimo anno accademico, si prospetto’ un’altra disgrazia familiare. A mia madre fu diagnosticato il cancro. Fu operata al seno. L’operazione, affrontata da mia madre con gran coraggio e serenita’, ebbe esito positivo e non vi furono complicazioni. Le terapie che fece successivamente si rivelarono efficaci, ma purtroppo avremmo dovuto aspettare cinque anni per esser certi della guarigione.
Fu un’esperienza angosciante, ma l’atteggiamento con cui mia madre affronto’ la realta’ ne alleggeri' la gravita’.
Nonostante tutto, riuscii a terminare gli studi e conseguire il mio obiettivo. Festeggiai. Avevo superato con successo tutti gli ostacoli del cammino: le mie crisi personali, i miei problemi familiari e le “difficolta’ accademiche”.
Malgrado le disgrazie, ho ricordi felici del periodo universitario. Non principalmente per la tranquillita’ dell’ ambiente e per l'allettante vita da studente. Ma soprattutto perche’ conobbi una persona speciale.

venerdì 22 luglio 2011

Anime solitarie

Ho sempre cercato il significato della mia vita nel riconoscimento e nella soddisfazione dell’Altro oppure attraverso il raggiungimento di obiettivi e ideali. Ma fino ad allora, non avevo mai dato valore alla mia vita perche’ non avevo avuto un ruolo sociale, ossia una responsabilita’ verso le altre persone. Infatti avevo vissuto pensando che ogni mia azione e ogni mio sbaglio intaccassero soltanto la mia vita . Ora invece la mia vita valeva quella della mia famiglia e se fosse venuta meno, la mia famiglia avrebbe subito un grave danno, aldila’ del dispiacere.
Pertanto andava salvaguardata. Non potevo piu’ permettermi di “scherzare con la morte” ne’ di andare in cerca di guai, come accaduto in passato.
Cominciavo anche a rendermi conto di quanto pericolosa e umiliante stesse diventando una relazione che si trascinava ormai da alcuni anni.
Era iniziata nella mia fase “margherita”, in cui mi rendevo facilmente disponibile all’Altro, pur correndo il rischio di venire calpestata. Inizio’ quasi per gioco e non immaginavo che sarebbe durata anni. Era una persona che il luogo comune definiva “poco di buono”: “sbandato”, sregolato, senza orari ne’ limiti di eccesso o velocita’.
Ma in fondo era un bravo ragazzo con elevato potenziale mal sfruttato. Se si comportava cosi’ era anche dovuto all’influenza dell’ambiente familiare dove aveva vissuto. Con i suoi genitori non aveva un dialogo costruttivo. Non gli negavano mai nulla, ma erano irascibili e con scarsa capacita’ di autocontrollo. Tendevano a parlare “con le mani” piuttosto che con le parole. Gli concedevano troppa liberta' e forse anche troppo denaro che egli sperperava con noncuranza.
Sapevo che ero importante per lui. Mi diceva che ero l'unico valore della sua vita. Ma non riusciva ad evitare di mancarmi di rispetto: mi tradiva, mi dava appuntamento e poi “si perdeva”, non si sa dove. Ma in realta' non mi sentivo imbrogliata perche' non era a me che doveva giustificare la sua condotta, ma soltanto a se' stesso. In fondo' lui non voleva, ma era incapace di negarsi agli amici che lo trascinavano nel vortice della perdizione. Capivo che avrebbe voluto andare a casa a dormire, dopo che mi accompagnava, ma peccava di volonta'. Era lui ad essere debole. Era lui, non io, che si danneggiava quando “si perdeva”. All'inizio ci stavo male. Ma poi imparai ad accettarlo perche' capivo che aveva bisogno di me e che alla sua maniera mi amava. In fondo, avevo in mano la situazione perche' potevo decidere cosa e fino a quale limite potevo tollerare il suo comportamento. Lui ammirava la mia fermezza. Nonostante la sua ignoranza, capiva il mio perfezionismo negli studi. E non questionava quando mi facevo negare perche' dovevo studiare. Forse era l'unico, tranne i miei genitori, che aveva accettato la mia transizione da “margherita” a “stella alpina”.
Ma ora che mio padre non c'era piu', cominciavo a rendermi conto che la relazione era solo apparentemente duratura. In fondo eravamo due anime solitarie che si accettavano reciprocamente e che si incontravano quando entrambe erano libere dalla propria schiavitu': io dalla mia volonta', lui dalla sua labilita'.
Eravamo due persone smodate. Quando ci siamo incontrati, anche io tendevo ad eccedere nella sua stessa direzione, ma poi ho invertito la rotta. E adesso sentivo che mi ero allontanata troppo e non accettavo piu' la sua lascivia. Non mi attirava piu' la sua sregolatezza, anzi cominciava a farmi paura perche' diventava sempre piu' pericolosa. C'erano momenti in cui diventava violento ed era impossibile parlargli. E purtroppo questi episodi stavano diventando sempre piu' frequenti. La mia vita era in pericolo e di conseguenza anche quella della mia famiglia.
Decisi che era giunto il limite della sopportazione. Il rapporto si stava rivelando distruttivo. Ed io ero stanca di distruzioni. La mia vita era gia' abbastanza devastata. Non mi illudevo di poter incontrare una persona con cui avere un rapporto di condivisione e non di sopportazione. Ma almeno restando da sola avrei ritrovato la tranquillita'. Avrei dormito serena senza sentirmi complice del suo vizio.
Mi resi conto che volerlo aiutare era stata un'illusione. Lui non cercava aiuto, ma dipendenza: voleva delegarmi la responsabilita' della sua vita.
Non fu facile troncare la nostra relazione. Mi minaccio' e insulto'. Ma poi capi' e mi lascio' stare. Non ho piu' avuto notizie, se non qualche lettera e messaggi di pentimento. Non ho mai messo in dubbio che fosse una persona sensibile.

martedì 19 luglio 2011

Il capofamiglia

Spesso ci si angoscia al punto tale da credere di non avere la forza di sopravvivere nell'eventualita' di una disgrazia. Ma quando l'evento che si teme si realizza, ci si trova costretti a fronteggiarlo e si scopre di possedere una forza superiore alle aspettative.
Cosi' accadde quando il Male vinse e mio padre ci lascio’ dopo un mese di degenza. Mia madre si oppose all’autopsia, vanificando l’ultima possibilita’ di scoprire la causa del male che lo distrusse.
Prima della sua morte, in due occasioni provai l'angoscia e lo sconforto dell'eventualita' di dover vivere senza di lui: durante il primo giorno della sua degenza ed il giorno in cui percepii che mio padre stava mentalmente degenerando.
Infatti la prima volta che andai a trovarlo in ospedale, dovetti uscire dalla stanza per evitare di svenire.  Mi bastarono l'odore di ospedale e la visione delle flebo somministrategli a farmi girare la  testa. Ma cercai di riprendermi subito perche' non volevo che ricoverassero anche me, ma soprattutto che mio padre pensasse che fossi debole.
Analogamente, cercai di riprendermi quando, in preda allo sconforto, urlai contro di lui perche' delirava. Sentirgli pronunciare parole senza senso, dal momento che era sempre stato una persona razionale, mi fece perdere la ragione. L'infermiera mi prese in disparte e mi rimprovero'. "Non deve reagire cosi' davanti a suo padre". "Ma tanto non mi sta neanche piu' a sentire", singhiozzai. "In questo modo, non fa che peggiorare la sua situazione e quella della sua famiglia". Aveva ragione. Non dovevo essere la causa di ulteriori danni. Mi calmai, ritornai da mio padre e ascoltai con fredda rassegnazione i suoi monologhi insensati.
Dopo che mio padre mori', dimostrai di avere piu' forza interiore e autocontrollo di quello che credevo. Di giorno mi imponevo di non piangere, per non contagiare mia madre e le mie sorelle. Ma la sera, quando tutti dormivano e nessuno poteva sentirmi, davo sfogo al mio dolore silenzioso.
Ma non mi abbandonai alla sofferenza, evitando di tormentarmi col pensiero di non conoscere la causa della morte di mio padre. In casa mancava un capofamiglia. Una persona che conducesse l'orchestra e ne evitasse lo sfacelo. Una persona forte che incarnasse la stabilita' e la volonta'. Una persona che si occupasse della gestione finanziaria della casa.
Mia madre non poteva adempiere a tale ruolo, peccando di capacita' amministrative e organizzative. Era sempre e solo stata casalinga e si disinteressava della gestione amministrativa al punto tale da non conoscerne le fonti di entrata e di uscita e restando all'oscuro degli adempimenti fiscali.
Ma io potevo evitare che la mia famiglia andasse alla deriva e che invece potesse vivere tranquilla dal punto di vista economico e libera da oneri fiscali. Presi in mano la situazione. Rovistai tra i documenti, mi informai sugli adempimenti fiscali e sulle pratiche da sbrigare per la successione. Feci tutto il possibile affinche' la mia famiglia non percepisse la mancanza di mio padre dal punto di vista amministrativo.
Stavolta non ero io ad identificarmi in una legge ideale, ma erano la mia legge e la mia volonta' ad identificarsi nella mia responsabilita' familiare. Ero subentrata nel ruolo di capofamiglia.

venerdì 15 luglio 2011

Presagi

Ero soddisfatta per i progressi che stavo facendo nel corso del primo anno accademico. Ma avvertivo qualcosa che mi preoccupava, anche se non capivo cosa fosse. Qualcosa che non potevo controllare. Qualcosa ben piu’ grave di un fallimento ad un esame.
Il primo indizio provenne direttamente da mio padre. “Ho gli attacchi di panico”. Come e’ possibile? Aveva sempre impersonificato la razionalita’ e l’autocontrollo e ora anche lui era vulnerabile all’angoscia e al disagio? La sua affermazione mi scosse. Non sapevo cosa rispondere. E poi che consiglio potevo dare dal momento che non sapevo ancora fronteggiare la mia angoscia per gli esami? “Perche’?”. Ma non mi rispose. Non sapeva neanche lui. Passava sempre meno tempo in casa. “Mi sento impazzire altrimenti”. Mi confidava. Lo capivo. Aveva bisogno di tranquillita’ e di qualcosa che in casa non trovava. Ma cosa? Anche lui come me soffriva del disagio familiare? Da quando era andato in pensione lo vedevo stressato. Uno stress negativo che nasceva dal sentirsi inutile alla societa’. E lui aveva ancora molte energie fisiche e mentali che voleva trasformare in lavoro, ma che non stava impiegando ed esse si stavano disperdendo dentro di lui, trasformandosi in rabbia, frustrazione o peggio depressione.
Si teneva occupato con le piu’ svariate attivita’, oltre che con il ciclismo, che aveva sempre praticato regolarmente anche nel periodo lavorativo. Frequentava biblioteche, seguiva caffe’ letterari, frequentava un corso di piemontese, trafficava sempre di piu’ con le sue diavolerie elettroniche e, piu’ recentemente, con il computer, si appassionava al simulatore di volo... Inoltre, era assolutamente informato su tutte le attivita’ fiscali e giuridiche che riguardavano la gestione familare. Era in grado di compilare autonomamente le dichiarazioni fiscali, di cui io ero ancora completamente ignara, pur essendo ragioniera.
Ma probabilmente non bastava. C’era ancora qualcosa che lo rendeva insoddisfatto. “Ma non sei felice per quello che fai?”. “Le attivita’ pubbliche a cui partecipo sono interessanti. Ma quando guardo i frequentanti, vedo tutte teste bianche.”
Allora aveva paura di invecchiare. Ma perche’? Se si e’ soddisfatti della propria vita, non si dovrebbe aver paura di invecchiare. Forse si sentiva troppo vecchio per fare qualcosa che avrebbe voluto? Ma cosa?
Decise poi di impegnarsi in un’associazione di volontariato per attivita’ ricreative dei disabili. Il suo umore miglioro’ notevolmente. Ora si sentiva di nuovo utile per la societa’. Probabilmente i suoi passatempi individuali, per quanto lo intrattenessero, non facevano che esaltare il suo isolamento da pensionato. E lui odiava l’isolamento, ma non la solitudine. Era molto individualista e indipendente e di certo non soffriva a trascorreva il tempo da solo. Al contrario, ne aveva bisogno. Ma non tollerava di sentirsi emarginato. Anche io sono cosi’ e vivevo la sua condizione come se fosse la mia.
Ma la febbre lo colpi’. Diverse ricadute nell’arco di un mese. Mia madre agi’ portandolo in ospedale. Lui non esito’ a infilarsi le scarpe e seguirla.
Fu il secondo indizio. Mio padre si arrendeva a mia madre, ma soprattutto andava in ospedale senza opporsi. Non era mai stato in ospedale. Non andava nemmeno dal medico di base. Erano anni che non faceva un’analisi del sangue. Non si sarebbe mai fatto ricoverare se non in stato terminale. Quando usci’ dalla porta sospettai che non sarebbe piu’ rientrato.
L’ultimo indizio provenne dai medici. “Gli esami sono tutti a posto. Chiunque vorrebbe avere una cartella clinica simile.”  Ma non lo dimettevano perche’ la febbre continuava a salire. E procedevano con le indagini: esami sempre piu’ invasivi e nocivi. Mia madre era sollevata poiche’ i medici non potevano diagnosticare alcuna patologia. Ma non capiva. Non capiva che non individuare la causa del male equivaleva a lasciar vincere il male. 

mercoledì 13 luglio 2011

La nuvola da ragioniere

Ricercando rifugio nell’astrazione, ma non dimenticandomi che in fondo avevo studiato ragioneria, decisi di iscrivermi ad un corso di laurea all’epoca nuovo di zecca e anomalo per la facolta’ di Economia della mia citta’, basato principalmente sulla statistica e sulla matematica applicata ai mercati finanziari e assicurativi.
Gli iscritti al corso sarebbero stati i primi ad esordire. Lo percepii quasi come un “segno del destino”: il corso aspettava me per iniziare e sarei stata tra i primi laureati in quel settore nella mia citta’.
Avrei dovuto faticare, studiando argomenti nuovi e forse all’inizio avrei avuto un po’ di difficolta’, visto che non possedevo le stesse conoscenze di base matematica degli studenti provenienti dal liceo.
Ma ero pronta ad accettare la sfida e avevo voglia di lasciarmi alle spalle “la nuvola da ragioniere” di cui comunque ero responsabile.  
Cosi’ con spirito di avventura, ma con intento di dedizione, iniziai il primo anno di universita’.
E non fu per nulla facile, ma non perche’ avessi difficolta’ nell’apprendimento e nello studio individuale, che erano invece i miei punti di forza, ma perche’ faticavo a gestire le mie emozioni.
Dovevo assolutamente cambiare atteggiamento, altrimenti non avrei mai conseguito il titolo.
L’atteggiamento antipatico da prima della classe, in un ambiente universitario, non aveva piu’ senso e, se non fosse per la natura elitaria del corso di laurea, che contava un esiguo numero di iscritti, non avrebbe neanche avuto senso essere la prima della classe, dal momento che all’Universita’ le classi non esistono.
Il nostro corso invece era un caso particolare. Presentava i vantaggi sia della scuola che dell’Universita’. Infatti, essendo in pochi, ci conoscevamo tutti e i professori ci trattavano da studenti e non da semplici anonime matricole. Il primo anno il professore che aveva “fondato” il nostro corso organizzo’ periodicamente degli incontri in cui “faceva l’appello” come a scuola, per conoscerci e monitorare  la nostra partecipazione.
D’altra parte usufruivamo di tutti i vantaggi dell’ambiente universitario: il “quarto d’ora accademico” di ritardo per l’inizio delle lezioni, la liberta’ di frequenza delle lezioni, anche se di fatto partecipare aveva i suoi vantaggi. Inoltre l’ambiente universitario e’ molto piu’ rilassante della scuola: nessuna tensione “sociale”, nessun protagonismo od ostruzionismo ... Si seguono le lezioni e se non se ne ha voglia se ne sta a casa senza suscitare clamore. Gli esami sono come dei treni: fissati ad intervalli regolari. Lo studente decide quando partire e se perde la coincidenza ne e’ responsabile in prima persona.
Nessuna critica ai fini sociali  e nessuna accusa da parte dei professori. Quel che conta alla fine e’ il risultato e non ammuffire o meno in aula.
Per quanto cominciai a rendermi conto che il mio comportamento nel triennio delle superiori era stato ridicolarmente astioso, avevo comunque paura ad abbandonare una maschera che seppur odiata, mi dava sicurezza.
Pertanto, ero restia ad abbandonare l’ideale del senso del sacrificio e dell’astinenza per il conseguimento dei risultati. Quindi non perdevo una lezione, studiavo sempre giorno per giorno e prima dell’esame ripassavo a nausea, anche perche’ in fondo mi sentivo insicura delle mie capacita’, soprattutto di quelle matematiche.
Ricordo che durante i corsi di insegnamento ero piuttosto serena e tranquilla, anche se temevo il momento dell’esame, dove in una o due ore  veniva valutato il frutto di mesi di studio. Vissi i primi esami di matematica con una tale ansia da prestazione da non riuscire quasi a scrivere per il tremore. E non riuscii a dimostrare la qualita’ del mio lavoro. Pensai quasi di abbandonare gli studi per l’insostenibilita’ dello stress. Ma non potevo rinunciare soltanto per codardia. Se il problema era l’emotivita’, dovevo affrontarla e non scappare. Inoltre avevo come unico obiettivo lo studio e le materie d’esame mi interessavano. Come avrei potuto vivere con la frustrazione se avessi rinunciato agli studi soltanto perche’ era piu’ comodo non stressarsi? Non avrebbe la frustrazione causato uno stress ancora piu’ pericoloso?
Chiesi anche aiuto ad uno psicologo, anche se lo consultai per pochissimo tempo. Infatti avevo soltanto bisogno di parlare, di sfogarmi. Raccontare le mie vicissitudini a qualcuno che mi ascoltasse senza giudicarmi o darmi consigli derivanti dal luogo comune.
Inoltre avevo bisogno di un po’ di incoraggiamento.
La prima votazione lodevole per un esame di matematica, dopo un tentativo fallito, mi diede la motivazione per proseguire. “Ora ho una dignita’ da mantenere”, pensavo.
Passo dopo passo, migliorai il rapporto con me stessa e la mia emotivita’ e di conseguenza, mi comportai con l’Altro in maniera piu’ socievole e aperta al dialogo, anche se in fondo la paura di intaccare la mia intransigenza, spesso mi induceva a mantenere le distanze, evitando di concedere troppa confidenza.
Ma se stavo imparando a convivere con me stessa e a gestire la mia vita in maniera piu’ pacata, evitando di essere la causa  delle mie sofferenze , presto avrei dovuto imparare anche a convivere con le sciagure, che invece richiedevano  placida rassegnazione.
La nuvola atmosferica si prospettava seriamente minacciosa. 

sabato 9 luglio 2011

Il gioco del Dare e Avere

Vissi l'esame di Maturita' in maniera penosa, ma soltanto per una prova, quella piu' importante per il mio percorso scolastico: la prova di Economia Aziendale, quella che mi rendeva ansiosa, particolarmente intrattabile. Quella a cui avevo dedicato tutti i miei sacrifici nel triennio e quella che identificavo come sinonimo di successo, se affrontata con trionfo. Il mio futuro dipende da essa, soltanto da essa, pensavo.
Cio' che mi preoccupava maggiormente era il fatto che l'esame consisteva nella simulazione di un caso aziendale reale  e nello svolgimento dei relativi "calcoli contabili". Quindi oltre alle conoscenze scolastiche era indispensabile essere aggiornati sulla realta' economico - aziendale, nazionale e globale.
Potevo ben vantare conoscenze scolastiche eccellenti, ma peccavo di pragmatismo e sensibilita' aziendale. Infatti, nel corso del triennio, avevo concepito la ragioneria come la materia dell'ordine e della disciplina. Ed e' forse questo il motivo per cui ne ero particolarmente interessata, volendo porre fine ai disordini della mia vita.
Per me il "Dare" e l'"Avere" erano come due forze antitetiche, come il Bene e il Male, che alla fine dovevano trovare un equilibrio, convivendo armoniosamente nel Bilancio finale. E l'elemento che ne consentiva il pareggio era l'utile o la perdita, cioe' il risultato della gestione, o della condotta.
Ma non attribuivo alcuna importanza ai numeri. Non mi chiedevo se fossero elevati o meno, ma mi interessava incasellarli al posto giusto, come se dovessi comporre un puzzle.
E fu quella la ragione per cui la seconda prova fu un disastro. Di fronte al testo d'esame mi feci subito prendere dal panico e ad aggravare la situazione fu il fatto che il docente che avrebbe corretto la prova era esterno. Ma quando mi calmai, mi resi conto che non avevo genialita' aziendale.
In tutti quegli anni avevo concentrato i miei sforzi nel voler sviluppare un talento che non avevo, dimenticandomi della mia predisposizione naturale, che comunque si rivelo' nelle altre prove scritte e nella prova orale. Il risultato finale fu oggettivamente eccellente, ma non lo considerai tale perche', pur essendo la votazione approssimabile al massimo, 100, non era 100. Ma soprattutto mi sentivo confusa e insicura delle mie capacita'.
Non ero consapevole del fatto che nella vita il successo dipende da vari fattori e che non e' l'eccellenza scolastica, o accademica, a determinarlo. Molti dei miei compagni di scuola, seppur con votazioni non troppo brillanti, hanno poi avuto successo, diventando piccoli imprenditori o semplicemente realizzando la propria vita in ambito familiare.
Quanto invidiavo le persone uscite con 60, il minimo, che andavano a festeggiare la loro vittoria. Io, invece, pur con un voto cosi' alto, mi sentivo sconfitta.
Il mio egocentrismo mi aveva impedito di vivere l'esame di maturita' come un'esperienza "sociale", dove il cameratismo rende l'esperienza piacevolmente indimenticabile.
Ed e' per questo che alcuni trasformano il proprio diploma in una carriera da ragioniere o, con ulteriori studi, da commercialista.
Io invece lasciai ingiallire il mio diploma nell'armadio.

martedì 5 luglio 2011

Il Male dentro

Si pensa spesso che il male non ci appartenga, che sia esterno, che provenga da un’”entita’”, a cui si attribuisce il nome di “Diavolo”, che ci tenta e ci trascina in un vortice maligno. Si pensa che la causa del nostro malessere sia l’Altro e che noi siamo soltanto delle vittime che subiscono passivamente gli eventi senza poterli modificare.
Si pensa di non essere responsabili della propria vita, che il nostro destino e’ assegnato e che dobbiamo solo accettarlo. Allo stesso modo si pensa di non poter far nulla per migliorare le nostre condizioni di salute se non ci si sente in forma. Percio’ ci si inbottisce di farmaci o altre droghe. Cosi’ come la contaminazione, si crede che anche la guarigione arrivi dall’esterno.
Ma in realta’ il Male, cosi’ come il Bene, sono endogeni. Dipendono da noi, e la variabile di cui sono funzione sono le nostre reazioni, espressione della nostra capacita’ di gestire le emozioni. Ovviamente le emozioni ricevono stimoli dall’ambiente esterno, ma siamo noi  che le trasformiamo in allegria, rabbia o malattia. Siamo noi che ridiamo se vediamo un film comico, siamo noi che ci innervosiamo se siamo in coda ad uno sportello. Siamo noi a deprimerci.
Se riusciamo a schivare un prepotente che ci taglia la strada mentre stiamo guidando, possiamo reagire in diversi modi: scendere dall’auto e picchiarlo, limitarci ad esprimere ad alta voce che e’ un deficiente, proseguire con indifferenza per la nostra strada,  compatirlo perche’ non si rende conto delle sue limitate capacita’ di guida o perche’ la sua sregolatezza e’ causata  da problemi personali. La nostra reazione suscita a sua volta una reazione di risposta da parte dell’Altro che puo’ essere violenta se il soggetto e’ provocato e causare piu’ danni di quelli attesi. In questa maniera, siamo  noi ad influenzare gli eventi.
Ricordo che quando frequentavo la scuola materna tendevo ad essere manesca e prepotente. Era un modo per attirare l’attenzione degli altri. Probabilmente capii da sola, e anche grazie all’intervento dell’educatrice, che il mio atteggiamento era sbagliato e che soltanto io potevo evitarlo.  Ma se un adulto mi avesse picchiato per farmelo capire, penso che avrei accettato l’ atteggiamento violento come parte dell’ambiente  esterno, a cui soltanto l’”esorcista” puo’ porre fine.
Purtroppo nel corso della mia infanzia e giovinezza nessun adulto mi ha mai indotto ad essere consapevole  dell’importanza della gestione delle proprie emozioni nella vita sociale e personale. Un’ “educazione emotiva” avrebbe potuto evitare i miei problemi alimentari, le mie manie di perfezionismo ed “esibizionismo”, le mie tendenze depressive. Mia madre avrebbe potuto essere un esempio positivo: alle avversita’ sorrideva sempre e non provava mai rancore.  Ma mi deludeva la sua risposta, quando le chiedevo come facesse a sopportare tutto: “Cosi’ vuole Dio, accetto la sua volonta’”. Allora pensavo fosse un angelo, un essere diverso da me e dai comuni mortali perche’ invece io mi arrabbiavo . Non accettavo la volonta’ di Dio? Non avevo fede? Il “Diavolo” mi stava coinvolgendo? Semplicemente, non ero capace di gestire intelligentemente le mie emozioni.
Ricordo quando provocai una mia compagna di scuola, esprimendole ad alta voce la mia antipatia. Con molta eleganza, mi rispose che il sentimento era reciproco, ma nulla piu’. Allora mi sentii ridicola e capii che in realta’ avevo manifestato pubblicamente l’odio e l’antipatia verso me stessa, attraverso un falso“capro espiatorio”.
Analogamente, se non si riesce a studiare,  non e’ colpa degli altri che ci distraggono, ma siamo noi che non riusciamo a concentrarci perche’ non ci interessa l’argomento, perche’ siamo svogliati o semplicemente stanchi.
E’ molto comodo trovare all’esterno la causa dei nostri mali e giustificare l’accidia.
Ad esempio, se si soffre in un ambiente e’ vero che puo’ essere dovuto al fatto che  l’ambiente non e’adatto a noi. Ma se noi non interveniamo, determiniamo la manifestazione  del Male nella nostra vita. Solo noi possiamo liberarcene. E se non siamo in grado di farlo da soli dobbiamo rivolgerci  all’esterno. Ma in tal caso  l’efficacia dell’intervento sara’ subordinata soltanto al nostro attivo recepimento e non all’abbandono passivo all’Altro, dicendo: “Fai tutto tu. Liberami dal male”.  

lunedì 4 luglio 2011

Eccellenza

Frenare l'iniziativa, l'impulso di distrarsi diversificando le proprie attivita', per concentrarsi su un unico progetto.
Investire tutte le energie su cio' che si pensa sia lo scopo della propria esistenza. Controllare e ridurre al minimo indispensabile il tempo "inattivo", cioe' quello in cui le risorse fisiche e mentali non sono impiegate per raggiungere l'obiettivo.
Sfruttare al massimo il proprio talento per eccellere.
Ma cosa definisce l'eccellenza?
Come il desiderio richiede altro desiderio, anche l'eccellenza richiede ulteriore elevazione.
Il limite e' il talento stesso che si rischia di annientare, distruggendone il significato di dote naturale per renderlo "artificiale", al servizio di un grado di eccellenza puramente ideale, cosi' elevato da non poter essere percepito.
E cosi' distrussi la mia spontaneita', il mio umorismo e, in parte, il mio talento stesso. Rischiai di disperdere la mia esistenza in una vetta talmente elevata da non poter essere padroneggiata, raggiunta la quale non si va piu' oltre e si ha paura di scendere.
Se prima l’autocontrollo era concentrato eccessivamente sul cibo, ora si focalizza sulla ricreazione, riducendola al minimo indispensabile, fino al punto in cui la mente non puo' fare a meno di uno spazio vuoto per poter funzionare.
Ma cosa definisce lo spazio vitale?
"Non posso, devo studiare". "Devo studiare di piu', anche se ho gia' studiato". "Non devo essere soltanto brava, devo eccellere". E vissi con l’ansia di non sbagliare un compito in classe, di non commettere un errore, di poter controllare il mio tempo, ma anche per l'ebbrezza della gloria e per la soddisfazione di poter ostentare la mia pagella. L'autocontrollo sul tempo libero e la focalizzazione della mia esistenza sull'eccellenza scolastica raggiunsero un livello tale  da rendermi "emotivamente e socialmente deficiente", cioe' da non essere in grado di controllare le mie reazioni e le relazioni interpersonali.
Ero talmente intransigente da non sembrare "umana". Mi comportai da persona egoista, intollerante, incurante verso l'Altro, menefreghista. Sapevo di suscitare odio, antipatia, invidia per la mia forte volonta' e determinazione e per le mie capacita'. La mia empatia mi faceva soffrire, infliggendomi i pensieri e gli stati d'animo negativi dell'Altro nei miei confronti.
Ma dovevo essere superiore, aliena ai giudizi dell'Altro: era il prezzo da pagare all'eccellenza.
La mia famiglia e gli insegnanti non potevano non lodare il mio successo ed io ero loro riconoscente. Ma anche a loro apparivo eccessiva e non giustificavano le mie tendenze masochistiche.
In fondo pensavo di essere incompresa, ma questo rafforzava la mia determinazione: l'eccellenza e’ eccesso e prescinde dalla comprensione umana, richiedendo soltanto un riconoscimento obiettivo, che nessuno puo' mettere in discussione. E tramite quel riconoscimento la mia vita non sarebbe stata insignificante. Con l’auto-affermazione avrei colmato il mio vuoto esistenziale e non avrei piu’ avuto bisogno di amore, trovando un sostituto nel potere e nel riconoscimento.
Pertanto mi allontanai dalle amiche e dalle persone che frequentavo. Non volevo che tollerassero la mia intransigenza e la mia antipatia. Non volevo che frequentassero una persona egocentrica, con un obiettivo al posto del cervello. Non volevo che assistessero ai miei patemi, quando commettevo un errore in un compito in classe. Non volevo che fingessero di rispettare la mia volonta’. Ma per fortuna, le mie amiche non mi ascoltarono, oltrepassando l’odio che provavo per me stessa.