martedì 28 giugno 2011

Trascendenza

Riflettei sulla mia condotta di vita, incentrata sul movimento e sull'esperienza, cioe’ sull' "orizzontalita'". Il mio imperativo era stato la soddisfazione immediata del mio desiderio e di quello dell'Altro.
Mi resi conto che mancava una legge, un controllo, una privazione, a cui solo io potevo provvedere, in mancanza di un provvedimento materno. Avevo bisogno di trascendenza, ascetismo, di una direzione verticale. Necessitavo di obiettivi idealizzanti con cui identificare l’essenza della mia esistenza.
Ora che non potevo camminare, e quindi usare completamente il mio corpo come veicolo di espressione e comunicazione,  percepivo che la mia mente era stata troppo leggera, “vuota”. Avevo dato troppa importanza all’esperienza, a scapito della conoscenza. Sentivo che avrei dovuto “riempire” la mente e “svuotare” il corpo. Svuotarlo, dalle forme che lo rendevano femminile, desiderabile, fecondo. In tal modo avrei annientato il desiderio e non avrei piu’ avuto bisogno dell’Altro per appagarlo, estraniandomi alla differenza sessuale.
Non avrei piu’ avuto bisogno di amare, di cercare una persona con la quale identificarmi. Non avrei piu’ avuto bisogno di amici perche’ sarei stata autosufficiente. Non avrei piu’ avuto bisogno di passatempi per distrarre la mente perche’ la mia mente non ne avrebbe avuto spazio. Non avrei piu’ avuto bisogno di disegnare perche’ le immagini non avrebbero piu’ attirato la mia attenzione, ne’ suscitato emozioni. Non avrei piu’ avuto bisogno di ridere e forse col tempo non avrei neanche piu’ avuto  bisogno di piangere. Non avrei piu’ ricercato nelle altre persone un modello da seguire e imitare: l’unico modello sarebbe stato il mio ideale, il mio unico padrone. Ed ero pronta a servirlo, rendendomi schiava della mia imposizione. Avrei raggiunto la totale indipendenza, essendo subordinata soltanto alla mia volonta’.
La mia legge inflessibile non avrebbe conciliato con una vita sociale. Il prezzo da pagare era quindi l’estraniazione. Ma ero disposta al sacrificio.
In tal modo non avrei piu’ avuto delusioni dall’Altro. Non avrei piu’ sofferto se un altro incidente mi avesse immobilizzato in casa. La mia felicita’ non sarebbe piu’ dipesa dall’Altro o dalla soddisfazione di un bisogno carnale. Sarei stata un essere superiore, protetta dalle contingenze della vita e indifferente ai bisogni materiali. Avrei superato il mio disagio familiare, esaltando la mia famiglia come ente superiore, estraneo alla normalita’. In fondo se potevo ambire ad un’elevazione spirituale era anche per merito dei miei genitori, che mi avevano insegnato il senso del dovere e del sacrificio, non con le teorie, ne’ con le prediche, ma con la loro scelta di vita, provvedendo in via permanente e continuativa all’assistenza  e al mantenimento di mia sorella con grave deficit mentale.
Ora avrei voluto preservarmi, apparendo come una stella alpina, anziche’ una margherita. Mio padre aveva ragione nel volermi preservare, nell’incitarmi ad evitare le esposizioni. Se l’avessi ascoltato ora sarei stata pura, incontaminata. Ma l’importante era aver capito la svolta che avrei dato alla mia vita.
Lo Studio sarebbe stato il mezzo per raggiungere l’elevazione spirituale. Dovevo sfruttare le mie capacita’ intellettive, non reprimerle per paura di essere al di fuori del normale, come avevo fatto alla fine delle scuole medie. In fondo la normalita’ e la mediocrita’, che invidiavo in quanto associati ad una vita serena, semplice e mondana, erano sempre stati estranei alla mia personalita’ complicata. Ma non avevo piu’ bisogno di confrontarmi con gli altri, seguendo la mia legge. La mia vita ora sarebbe stata incentrata sulla volonta’ e sulla conoscenza, elevando l’astinenza all’estasi.

domenica 26 giugno 2011

Anoressenza

Controllare la fame implica mangiare soltanto l'essenziale, il minimo indispensabile, scoprendo il significato del cibo stesso e quindi della sopravvivenza. Mangiare soltanto se e quando la fame diventa insopportabile, da stordire lo stomaco e il cervello. Mangiare per impulso irrefrenabile e non per abitudine, noia o golosita'. Controllare le pulsioni fino a quando e' possibile, fino a quando la ragione ne e' capace e poi sfogarle, ma controllatamente, nel pasto, scrupolosamente programmato nelle quantita' e qualita'.
Ma fino a che punto si puo' controllare e sopportare la fame?
Cosa definisce l'essenziale?
Come il desiderio richiede ancora desiderio, anche la privazione richiama maggiore privazione.
Il limite e' la vita stessa, della quale ne ricercavo disperatamente l'essenza, il suo significato. E rischiavo di morire per trovarlo, annientandone l'essenza stessa.

giovedì 23 giugno 2011

L'armatura

Una frattura al piede pose fine alle mie “scorribande”. Una semplice frattura, che segno’ un cambiamento di rotta, ma rovino’ le mie vacanze estive, immobilizzandomi a casa.
Grazie alla mia performance scolastica, nonostante la condotta lasciasse ancora a desiderare, mio padre mi concesse di trascorrere fuori citta’ alcuni giorni di vacanza  con le mie amiche. Sarebbe stata la prima volta che avrei potuto dormire e mangiare fuori casa “incustodita”, senza orari, ne’ regole.
E invece, passai un mese in casa. La mia “ora di liberta’” consisteva nel giro dell’isolato con le stampelle. Sentivo la mia situazione familiare soverchiante. Se prima avevo aggirato il mio disagio, ignorandolo, ora non potevo piu’. Per andare avanti dovevo soltanto superarlo.
Quella situazione richiamava alla memoria il mio passato, quando mi sentivo soffocata dalla onnipresenza di mia madre e dal troppo cibo che cucinava.
Da piccola ero grassa e ne soffrivo. Mi sentivo “pesante”, “anormale”, ma soprattutto mi preoccupava l’indifferenza di mia madre di fronte  agli allarmi dei medici che mi vedevano. “Se continua cosi’ a 15 anni diventa obesa.”  Per quanto non sapessi cosa significasse essere obesi, percepivo che non era una cosa positiva, dal tono con cui i medici lo esprimevano. Ma non sapevo cosa fare. In fondo era mia madre che decideva per il mio corpo: cosa cucinare, quanto farmi muovere, visto che non potevo uscire sola. Io non avevo nessun controllo su di me e pertanto non avevo nessun interesse a controllare le emozioni. Anzi, l’unico modo per attirare l’attenzione e la considerazione di mia madre era urlare, piangere istericamente. Solo allora si rendeva conto che soffrivo e doveva intervenire per sedarmi. Cosi’ vedevo il mio corpo come un’armatura che, sebbene mi difendesse dagli attacchi esterni, intrappolava i miei organi vitali ed il mio spirito. Avrei voluto crescere in fretta per potermi scegliere l’armatura, piu’ flessuosa e dinamica. Invece ero paralizzata nel mio rivestimento adiposo. Dovetti lottare e urlare affinche’ mia madre si decidesse a portarmi da un dietologo. Grazie alla mia costanza e ferrea volonta’ persi un bel po’ di chili e a dodici anni potevo ostentare la mia snella armatura. Mia madre comunque non collaboro’ per nulla all’imposizione della mia dieta. Dovevo sorvegliarla in continuazione affinche’ non mi aggiungesse decagrammi di pasta in piu’ e cucchiai di olio. Eravamo sempre a battibeccare. Lei pensava che tanto il grasso si sarebbe sciolto con gli anni. “Con le preghiere?” Replicavo. Non posso vivere sperando in balia dei frangenti, ma devo fomentarli e controllarli.
La paura di perdere il controllo della situazione, dovendo pure combattere il lassismo di mia madre,  mi spinse a dover essere inflessibile, a controllare le mie pulsioni e quindi a controllare la fame.
Infatti, non potendo muovermi per un mese, non potendo uscire e percependo il mio corpo vulnerabile all’ingrassamento, innescai a 16 anni un meccanismo interno di autocontrollo e repressione che si trasformo’ in primo luogo in un disturbo del comportamento alimentare e, successivamente, in una nuova “filosofia” di vita.alienante che oserei battezzare “Anoressenza”.

lunedì 20 giugno 2011

La tavola e il letto

Ero sempre fuori casa, tranne per desinare e dormire, momenti in cui la mia assenza non era ancora tollerata. Mia madre esasperava il vitto: "Cosa mangi e come mangi fuori?"; mio padre l'alloggio : "Con chi e dove dormi?". Gli unici elementi che mi legavano alla famiglia, e che quindi limitavano la mia indipendenza, erano la tavola e il letto. Ma io chiedevo sempre di piu'. Mio padre riguardo al letto era inflessibile, ma riguardo alla tavola per fortuna era indulgente.
Richiedevo sempre piu' tempo da trascorrere con gli amici. Soffrivo quando non li vedevo e quando non erano disponibili. Inoltre mi sentivo inetta quando non conoscevo persone nuove. La mia felicita' dipendeva dagli incontri occasionali in discoteca, al luna park o dove capitava. Ma cosa cercavo veramente? In fondo cercavo amore. Frequentavo diversi ragazzi, ma in realta' ne avrei voluto uno solo. Avrei voluto una persona con cui instaurare un rapporto esclusivo, speciale. Ma non la trovavo. Forse perche' cercavo nel posto sbagliato o forse perche' mi trovavo nel posto sbagliato o forse era solo questione di tempo. Ma nella mia disperata ricerca mi divertivo e non avrei voluto essere altrove o vivere diversamente. Le mie esperienze erano esplorative, "orizzontali", non "verticali". Le mie amiche pero' erano il mio punto di riferimento, le persone a cui potevo confidare le mie vicissitudini senza tabu'.
Ma con loro non condivisi il mio disagio familiare. Non volli render loro partecipi dei miei problemi, della mia tristezza della mia "anormalita'". Non volli menzionare l'esistenza di una sorella con encefalopatia neonatale. Fuori di casa, infatti, era come se la mia famiglia non esistesse. Ero spensierata, leggera, come se io non avessi origini ne' radici. Ma se non avevo capo, non avevo neanche coda.

domenica 12 giugno 2011

La margherita

Quale ponte mi avrebbe consentito di raggiungere i miei compagni?
Avrei dovuto trovare un modo per attirare la loro attenzione e stimolare il loro interesse. Un modo che mi permettesse di distinguermi, ma al contempo di non estraniarmi, di  essere allo stesso tempo come loro, ma differente.
Ho sempre attirato l'attenzione dei coetanei. All'asilo ero un po' temuta per la mia aggressività e prepotenza. Alle scuole elementari si notava in primo luogo la mia stazza.  Il mio anticonformismo sembrava soltanto l'altra faccia della mia anormalità.
Alle scuole medie era l'essere la prima della classe che mi contraddistingueva, mi spaventava, mi faceva sentire a disagio e impacciata. Il pensiero di essere "anormale" mi rendeva irraggiungibile, paralizzando non soltanto l'azione, ma anche il dialogo.
All'inizio delle scuole superiori, sentivo che volevo ritrovare la mia spontaneità, il sorriso e l'estroversione infantili, che forse  si erano sciolte insieme ai chili che avevo perso o insieme al sudore dello studio.
Volevo essere una margherita, un fiore alla portata di tutti, da poter facilmente cogliere e ammirarne la bellezza. Non volevo essere una stella alpina, inarrivabile e difficile da staccare.
Preferivo rischiare che qualcuno avesse potuto strapparmi i petali o calpestarmi piuttosto che evitare di cogliermi.
Pensavo che offrendo interamente la mia disponibilità agli altri, non sarei stata abbandonata. Gli altri sarebbero venuti e tornati da me. Nella migliore delle ipotesi, mi avrebbero fatto sentire amata. Nella peggiore, usata. Ma per lo meno sarei stata utile.
E questo era cio' che mi interessava, ma mi trovavo ad un bivio. Dovevo scegliere tra la direzione che volevo seguire e la direzione che i miei genitori avrebbero voluto che seguissi, cioe' quella della preservazione, in cui sarei rimasta una stella alpina, al riparo dalle grinfie altrui.
Ma il nido familiare mi opprimeva. Volevo espormi, esprimermi al mondo, uscire dall'isolamento in cui mi sentivo segregata. 
Essere la prima della classe non esprimeva l'immagine che volevo dare agli altri. Volevo invece intrattenere,  diventare la prima attrice del cabaret scolastico. Volevo animare la classe. Volevo che ogni giorno fosse particolare.
Far ridere i miei compagni, era una delle soddisfazioni più grandi.
Per farlo, dovevo usare le loro espressioni gergali, quegli intercalari vietati nel mio nido, ma al contempo introdurre aspetti di originalità e comicità.
Sono riuscita nel mio intento, anche se esagerando. Gli insegnanti perdevano la pazienza e, per ristabilire il loro protagonismo scenico, mi invitavano  ad abbandonare la platea.
Ma era l'unico modo per essere portavoce della ribellione al sistema, alle regole, all'ordine e alla disciplina. Volevo essere la forma di espressione del sentimento di noia e costrizione che accomuna gli studenti. Pensavo che in fondo tutti i miei compagni avrebbero voluto essere fuori dalla classe, ma non ne avevano il coraggio. Volevo trasmettere quell'ebbrezza, anche se in forma catartica. Mi proponevo come il loro capro espiatorio.
Ho rischiato la bocciatura soltanto per la mia condotta. Se fosse successo, l'avrei accettato con responsabilità, essendo  conseguenza della mia provocazione, del mio ripudio ad un comportamento ortodosso.
In realtà la mia famiglia  e lo studio erano Il capro espiatorio del mio essere diversa, di non aver una vita normale.
Osservavo mia madre, una chioccia con tre pulcini, tra cui due incapaci di esprimere la propria volontà. Uno per handicap, l'altro per carattere. Io non volevo essere il terzo, ed in fondo neanche mio padre lo voleva, ma non lo impediva.
Studiare mi piaceva, mi distraeva dal malessere familiare, ma mi estraniava. "Odio la mia famiglia e odio studiare". Era un modo per convincermi che il problema non era interiore, ma esteriore.
All'epoca in classe mi sentivo "viva", ma in realtà non stavo vivendo la mia vita, ma soltanto l'attimo. Era un bellissimo sogno, ma non potevo negare che nella mia vita c'erano la mia famiglia e i miei insegnanti.
Pensavo di aver costruito un ponte stabile con i miei coetanei. Ma in realtà ero diventata un ponte instabile, aprendo il dialogo con i coetanei e chiudendolo con la mia famiglia e gli insegnanti.
Se prima ero troppo solerte per essere credibile ai miei coetanei, in questa fase ero troppo negligente per essere credibile agli adulti.

domenica 5 giugno 2011

Il ponte levatoio

Lo studio ha avuto un effetto sedante su di me. La bambina vivace, turbolenta e pestifera diventava introversa, riflessiva e taciturna. L'energia dell'azione diventava energia del pensiero. La mia iniziale ribellione alle convenzioni delle scuole elementari: il grembiule, la penna stilografica, i quaderni senza "orecchie" e foderati, il diario non istoriato ... si tramutava in consapevole accettazione di una fase transitoria del processo educativo e formativo. "Quando saro' grande saro' libera di fare quello che voglio". Pensavo. E vedevo lo studio come l'unica via per l'emancipazione, l'unico modo per ottenere il riconoscimento dell'adulto e l'unico modo per diventare adulta.
Alle scuole medie, ero diventata completamente autonoma. Non richiedevo piu' il supporto di mio padre e neanche il suo consiglio che, per quanto razionale e obiettivo, mi sembrava distaccato e non conforme alla mia indole. Cominciavo a non sopportare la gabbia familiare. Volevo uscirne, volevo esplorare la realta'. Volevo raggiungere l'Altro "estraneo". Non percepivo soltanto il bisogno di conoscenza, ma anche di esperienza.
Mi resi conto che lo studio era un ponte levatoio, un ponte mobile di collegamento con l'Altro: si abbassava quando dall'altra parte c'era un adulto, si sollevava quanto dall'altra parte c'era una persona della mia generazione. Pertanto, se volevo comunicare ed ottenere un riconoscimento dai miei coetanei. dovevo usare un altro ponte piu' stabile. Ma quale fosse non lo sapevo.
"Percorri la tua strada. I tuoi compagni di classe sono la tapezzeria della classe. Non preoccuparti se non riesci a stabilire un collegamento". Ma io ero proprio interessata ad essere parte integrante della "tapezzeria" in quanto e' l'elemento che rende vivibile un ambiente.
A scuola viene esasperata l'importanza del rendimento scolastico piuttosto che la vivibilita' dello stesso. Il genitore chiede all'insegnante: "Come va mio figlio?". E intende dire "Come rende? Quanto produce?" e non "Come vive in classe? Qual e' la qualita' della sua produzione?".
La mia priorita', alla fine della scuola dell'obbligo, non era limitarsi ad osservare la "tappezzeria", ma farne parte: contribuendo alla vivibilita' dell'ambiente e goderne.
Non sapendo se avrei voluto instaurare con lo studio un rapporto "verticale", dissi a mio padre che non ero sicura di voler proseguire gli studi fino all'Universita' e pertanto pensavo che fosse piu' razionale iscrivermi all'istituto tecnico commerciale. Mio padre capi' le mie ragioni. Non poteva opporsi: non gli stavo prospettando nulla di "artistico". Non sarei diventata "ingegnere" o "matematico", ma almeno avrei potuto fare un lavoro "aritmetico". Avrei potuto avere un buon impiego anche senza laurea. Era innegabile che mio padre avrebbe preferito se avessi scelto una scuola, come il liceo scientifico, dove la tappezzeria e l'ambiente sono "di classe". Ma io non miravo ad essere una persona "di classe", ma d'azione.